sabato 21 febbraio 2015

La collina di Torino nel cuore

La città di Torino è da sempre profondamente legata alla sua collina, un meraviglioso insieme di rilievi che si solleva dalla piana e che caratterizza il paesaggio insieme alla corona delle Alpi che circonda il Piemonte.
Viene definita come un mirabile e raro esempio di natura antropizzata, vanto della città. Uno spazio di verde e terreno di passeggiate così vicino al centro città in cui è facile ritrovare e vivere un vero momento di pace.
Ma soprattutto la collina di Torino mostra, a chi sa dove cercare, il suo passato carico di storia: antiche Vigne (definite ora più comunemente "Ville"), cappelle, monumenti storici, parchi e sentieri che hanno influenzato la vita degli abitanti di Torino da sempre.

In questo articolo riporto alcuni frammenti significativi delle descrizioni di scrittori che, giunti sulla collina, non sono riusciti a resistere e si sono lasciati conquistare dalla sua bellezza.

Come ad esempio Jean-Jacques Rousseau che nelle "Confessions" del suo viaggio a Torino del 1727 scrive:
«Eravamo d'estate. Ci alzammo all'alba. Il buon ecclesiastico mi condusse fuori città su un'alta collina, sotto la quale scorreva il Po, di cui s'intravvedeva il corso attraverso le fertili sponde che bagna; in lontananza, l'immensa catena delle Alpi incoronava il paesaggio; i raggi del sole nascente radevano già le pianure e, proiettando sui campi le lunghe ombre degli alberi, dei poggi, delle case, arricchivano di mille giochi di luce il più bel quadro sul quale l'occhio umano possa posarsi. Si sarebbe detto che la natura si stesse rivelando dinanzi ai nostri occhi in tutta la sua magnificenza per proporci il testo delle nostre conversazioni...»


Così riporta Millin, giunto a Torino nel 1811:
«Ad un quarto di lega al di là del Po è una catena di colline, sulla quale gli abitanti hanno fatto costruire delle case di campagna per lo più graziose... La varietà dei luoghi, la bellezza dei panorami rendono questo soggiorno delizioso. Non è da meravigliarsi se i figli di San Francesco vi hanno stabilito la loro dimora. Dappertutto in Italia, se si cercano i migliori panorami, bisogna salire ai conventi dei Cappuccini...
La chiesa ha una grande cupola e l'interno è ben decorato. Si scende per una scala fino ad un sentiero per mezzo del quale si può raggiungere la "Vigna della Regina"...»

«Non mi rimaneva da vedere che Superga... Partimmo alle otto del 6 Novembre. La strada è lungo la riva destra del Po... Arrivammo ben presto alla Madonna del Pilone... Verso la sommità del colle di Superga si trovano dodici piccole cappelle, dove sono raffigurate le dodici principali scene della Passione. Si giunge poi al sontuoso edificio che si vede da tutti i dintorni di Torino e che io avevo già scoperto, al di sopra della città, uscendo da Rivoli. Fu dato a questo luogo il nome di Superga perchè è alle spalle delle montagne. È su questa collina che Vittorio Amedeo ed il principe Eugenio discussero il piano di difesa di Torino assediata dai francesi nel 1706. Il Duca fece voto di dimostrare la sua riconoscenza all'Essere Supremo elevando in questo luogo un tempio magnifico se l'attacco fosse riuscito vittorioso e avesse costretto i Francesi a togliere l'assedio.
Il panorama che si può ammirare dalla terrazza di Superga è veramente bello. Guidato dal mio amico, il barone Vernazza, salii fino sulla lanterna da cui si vede il più imponente degli spettacoli. La vista spazia, a sinistra, fino alla catena del Monviso, da cui il Po scende verso le pianure del Piemonte e della Lombardia. L'occhio si posa, di fronte, sul picco del Rocciamelone e sul Moncenisio, da cui nasce la Dora; seguendo il corso dell'Orco e della Dora Baltea, si vedono elevarsi il Monte Rosa ed il Gran San Bernardo. A destra l'occhio spazia su pianure disseminate di città...»

Ma la collina torinese è qualcosa di più che un semplice punto panoramico, è la campagna, il verde e i boschi a due passi dalla città, un'occasione di svago e di riposo per i torinesi.
Scrive Cesare Meano nelle sue "immagini di Torino" del 1938:
«Per la loro collina, che Saverio de Maistre diceva deliziosa e invocava con accenti da innamorato ("la mia anima è piena di te") i torinesi hanno sulla porta di casa, che basta un solo passo a raggiungerla, la campagna. 
E non è la fittizia campagna che circonda ogni città, con quei prati che somigliano a cortili e quegli arbusti incanutiti dalla polvere, bensì la campagna vera, schietta, completa, che dà ai cittadini un senso di lontananza e, quindi, di vita diversa. Pochi passi su per le colline torinesi. Una rampa, una svolta, una scala. Ed eccoci al riparo d'un poggio o nel grembo d'una valletta. Non vediamo più la città; non la sentiamo più. Diventiamo campagnoli beati...
Comunque, non l'abbiamo ancora lodata abbastanza, quell'adunata di poggi verdi, con ville, campi, fattorie, boschi, prati, borgatelle, conventi e pievi, strade carrozzabili e viottole, torrentelli e cascatelle: campionario di campagna e di parco contro il quale vanno a morire le nostre strade avviate, press'a poco, verso oriente...»

E gli fa eco Carlo Levi alcuni anni dopo:
«Com'è bella in questi giorni tiepidi di sole, al di là del fiume, la collina di Torino, con il suo verde variato di piante, di foglie e di erbe infinite, come un muro vegetale rigoglioso, giovanile, pieno di viva e fresca energia, nitido e vaporoso, tenero e complesso, dove i sentieri del giovane Jean-Jacques Rousseau pare serpeggino ancora intatti in un mondo arboreo di innocente natura, e insieme ogni pronda, ogni villa, ogni profilo del terreno sembra esprimere una vicenda lunghissima di sentimenti vissuti, di civiltà costruita nella serie continuata degli anni, una verde raccolta di storia e di memoria.»

Altra caratteristica della collina di Torino, menzionata dagli scrittori nei loro testi, sono le Vigne: luogo di lavoro e di villeggiatura per gli abitanti torinesi.
Leggiamo cosa scrive Cesare Balbo nei suoi "Frammenti sul Piemonte" del 1851:
«La collina che incomincia alle ultime case della città, la vigna con le sue poche giornate di terreno intorno alla casa, la via che si fa in poco tempo, a piedi gli uomini, sul somarello le donne, il sabato sera per tornare il lunedì mattino con in mano i fiori del giardino e al braccio il panieretto della frutta colta di propria mano, ecco le villeggiature che stanno bene alla pluralità dei buoni cittadini.»

E ancora Augusto Monti ne "La corona sulle ventitrè" del 1947:
«Ricordo (il marchese Faustino Curlo) quando venne a visitare sulla collina di Torino, una villa, anzi una "vigna", la "Vigna Allason" fra Santa Margherita e l'Eremo. Subito arrivandoci gli fece piacere quel "Vigna" impresso in grande sul pilastro d'ingresso. La "Vigna" - appunto commentò - del buon tempo torinese antico, a cui saliva in Settembre per quei quindici dì; i più validi a cavallo; le signore in portantina, mica male sobbalzate su quei rompicolli di viottoli; la servitù a piedi.»

Ed aggiunge Barbara Allason, che in collina è vissuta, riportando ne "Vecchie ville cuori" del 1950:
«Questa collina (che guarda nelle sue vallate verso la città) che l'abitudine o la predilezione dei torinesi ha da alcuni secoli disseminato di ville o "vigne" - preferito dagli oriundi questo secondo nome, anche se si tratti di ville grandi e magnifiche - in omaggio al carattere della maggior parte di queste case campestri, che è quello di un civile associato ad un rustico e a un terreno coltivato per la massima parte a vigneto. Nè lì mai occorre il nome di "podere" o "cascina", che è roba di altre proprietà e indica luogo di sfruttamento agricolo, mentre le case della mia collina furono in origine tutte, e sono ancor oggi per la massima parte, villeggiatura.»

E concludiamo questa breve raccolta di scritti sulla collina con le prime righe di "La casa in collina" di Cesare Pavese, che riporta i ricordi dei giorni passati dallo scrittore tra Torino e la sua collina durante l'ultima Guerra Mondiale.
«Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere.
Per esempio, non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine e burroni. Ci salivo la sera come se anch'io fuggissi il soprassalto notturno degli allarmi, e le strade formicolavano di gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo, indocile, credula e divertita. Si prendeva la salita, e ciascuno parlava della città condannata, della notte e dei terrori imminenti. Io che vivevo da tempo lassù, li vedevo a poco a poco svoltare e diradarsi, e veniva il momento che salivo ormai solo, tra le siepi e il muretto.
Allora camminavo tendendo l'orecchio, levando gli occhi agli alberi familiari, fiutando le cose e la terra. Non avevo tristezze, sapevo che nella notte la città poteva andare tutta in fiamme e la gente morire. I burroni, le ville e i sentieri si sarebbero svegliati al mattino calmi e uguali.»

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