venerdì 5 gennaio 2018

Kilimanjaro

È senza dubbio il vero, unico, Signore dell'Africa.
Il suo profilo, imponente e maestoso, ben visibile dalla pianura circostante, lo fa apparire come un sovrano assiso sul suo trono, ammantato dal verde della giungla equatoriale e coronato dal bianco dei ghiacci.

Quando parliamo del Kilimanjaro la mente evoca quasi immediatamente l'immagine di un'alta montagna che si erge al di sopra della vasta savana del Serengeti.
In realtà stiamo parlando di uno stratovulcano quiescente che si trova in prossimità del confine settentrionale della Tanzania e che copre un'area estesa circa 80 km e larga 40 km.
Il Kilimanjaro è il prodotto di un'intensa attività vulcanica avvenuta nell'Era Terziaria, durante la formazione della Rift Valley e che ha generato come risultato tre grandi crateri: lo Shira, il Mawenzi e il Kibo. Quest'ultimo è il più grande ed il più "recente", dalla caratteristica forma a tronco di cono, che ancora oggi mostra lievissimi segni di attività magmatica a circa 400/500 m di profondità.

La sua elevazione (5895 m), la particolare posizione geografica e la sua struttura la rendono la montagna solitaria più alta del mondo ma anche uno dei luoghi con il maggior numero di variazioni climatiche concentrate su un'unica cima.
Per anni ho sognato questa ascensione. Osservare il Kilimanjaro nei documentari in TV, sfondo dei lunghi spostamenti dei pachidermi o dei grandi felini in caccia nel Parco Amboseli, per me non era più sufficiente.
Avevo bisogno di vederlo con i miei occhi, avevo bisogno di scoprirlo di persona, di viverlo senza intermediari esterni.

Un po' di storia...
"Ad occidente di Mombasa si eleva il Monte Olimpo d'Etiopia che è altissimo e più nell'interno ancora si trovano le montagne della luna che nascondono le sorgenti del Nilo." Questa è una delle prime descrizioni del Kilimanjaro ad opera del cartografo spagnolo del XVI secolo Martín Fernández de Enciso. Va precisato però che il mistero delle sorgenti del Nilo non fu risolto fino alla fine del XIX secolo, al punto che nel 1650 Giacomo Antonio Fancelli scolpì il Nilo per la Fontana dei Quattro Fiumi in Piazza Navona a Roma, ideata dall'architetto Gian Lorenzo Bernini, e lo rappresentò con il volto coperto da un velo a evidenziare le sue origini misteriose.
Uno dei primi europei ad avvicinarsi al Kilimanjaro fu il Dottor Johann Rebmann l'11 Maggio 1848 che, partì da Mombasa per esplorare l'entroterra e scorse l'immensa montagna bianca a forma di panettone. Al suo occhio meravigliato apparì come una strana nuvola. Si inginocchiò e commosso recitò un salmo in gloria del Signore. Quando riuscì ad interrogare gli abitanti che vivevano alle pendici della montagna gli riferirono che la sostanza bianca che ricopriva la sommità diventava acqua nei recipienti quando veniva portata alla base e che gli uomini che tentavano di salire sulla vetta ritornavano con le mani e i piedi con quelli che il dottore diagnosticò come segni evidenti di un principio di congelamento.
L'esploratore ritornò in Europa e pubblicò un rapporto dove dichiarava di aver trovato il ghiaccio all'equatore, ma i suoi contemporanei giudicarono falsa la sua relazione e per molti anni non fu creduto. Oggi uno dei primi ghiacciai che si individuano da Stella Point (5756 m) porta il suo nome.
La prima ascensione ufficiale avvenne il 5 Ottobre 1889 ad opera del geologo ed esploratore tedesco Hans Meyer. I primi due tentativi avvenuti nei due anni precedenti fallirono: nel 1887 fu la montagna a respingerlo perchè Meyer non era equipaggiato a sufficienza al gelo ed al ghiaccio del Kibo. Nel 1888 invece la spedizione venne bloccata durante una rivolta locale.
Quasi undici anni dopo, a Berlino, pubblicò il libro Der Kilima-Ndscharo.


La preparazione...
La salita sulla vetta più alta dell'Africa non presenta difficoltà di tipo alpinistico su nessuno dei sette itinerari che la percorrono. Non è quindi necessario frequentare corsi di alpinismo o essere in grado di padroneggiare manovre di sosta o di calata in corda doppia: sul Kilimanjaro si cammina. Molto.
Può dunque essere utile allenarsi ad una progressione lenta e costante, ad una camminata che può raggiungere anche un massimo di otto ore in un giorno, a mantenere un passo regolare in salita ed in discesa, consapevoli delle difficoltà respiratorie dovute alla carenza di ossigeno in alta quota.
Non ci sono zanzare o altri insetti fastidiosi sul Kilimanjaro, è quindi ridotto a zero il rischio di malaria o di altre parassitosi. Non ci sono vaccinazioni obbligatorie ma consiglio in ogni caso di contattare la propria ASL di competenza prima di organizzare il viaggio.
L'ultimo consiglio che sento di fornire a chi volesse intraprendere l'ascensione è di svolgere un allenamento specifico per l'acclimatazione al freddo e per l'adattamento alle quote più alte.

L'equipaggiamento...
Come già detto in precedenza, sul Kilimanjaro si cammina a lungo e viene da sè dunque che tra gli elementi fondamentali dell'equipaggiamento ci siano gli scarponi. Avvolgenti, confortevoli, comodi, in grado di preservare il piede da piaghe e vesciche che sono assolutamente da evitare. Un paio di scarpe leggere da trekking saranno invece utili per i brevi spostamenti durante le ore di riposo nei campi base.
Ulteriore ausilio alla camminata sono i bastoni da trekking. Leggeri, regolabili e di buona qualità diventano strumenti utili tanto in salita quanto in discesa.
Terzo elemento fondamentale per il cammino è lo zaino che deve essere dotato di una buona resistenza e impermeabilità, e sufficientemente capiente da trasportare tutto ciò che ci servirà per il trekking. È possibile lasciare parte del nostro equipaggiamento, fino a un massimo di 8 kg, ai portatori. Il materiale consegnato verrà riposto con cura in una borsa impermeabile che verrà trasportata da questi ragazzi straordinari, da un campo base all'altro; tuttavia consiglio di partire con l'idea di contare principalmente sulle proprie forze e di ricorrere ad un alleggerimento del carico solo in caso di reale necessità.
Elementi indispensabili per combattere il freddo sono principalmente due: un guscio da trekking di buona qualità, impermeabile e performante, e un buon sacco a pelo che ci consenta di riposare bene nonostante le rigide temperature della notte.
Per tutto il restante equipaggiamento ci si può affidare ad articoli non eccessivamente specifici o costosi:
-biancheria sportiva e calze tecniche;
-magliette e indumenti comodi da indossare a strati, pile e sintetico traspirante;
-pantaloni antipioggia e antivento in goretex da indossare insieme alla giacca;
-cappello di lana, passamontagna e guanti per il freddo;
-berretto con visiera, occhiali da sole e crema solare per l'esposizione ai raggi diretti del sole;
-lampada frontale, torcia elettrica e batterie di scorta;
-borracce per un equivalente di almeno 3 litri d'acqua;
-poncho e materiale cerato in caso di pioggia insistente;
-burro cacao o balsamo per le labbra, frequentemente soggette agli attacchi del vento freddo;
-una piccola scorta di barrette energetiche, snacks dolci o cioccolato fondente;
Per gran parte del materiale qui sopra elencato ho fatto affidamento a negozi specializzati, menzionati alla fine di questo post.

Pasti, medicinali ed igiene personale...
Il cuoco ed i suoi assistenti vi serviranno in una tenda apposita ogni pasto della giornata ad eccezione del primo pranzo che sarà al sacco e che vi verrà fornito al momento della partenza.
La colazione prevede the caldo a cui potete aggiungere zucchero o miele, poi porridge, omelettes, pane tostato su cui spalmare burro o marmellata.
A pranzo e a cena verrà servito sempre un brodo caldo a base di verdure, poi alcune pietanze come ad esempio riso bollito accompagnato da verdure miste o spezzatino di carne o pesce, patate e fagioli, banane e arance per frutta, il tutto sempre accompagnato da the caldo.
La pulizia personale nei campi base non è proprio semplice. Salvo qualche rara eccezione ogni giorno i portatori vi forniranno un piccolo catino con un po' di acqua calda al mattino e al vostro arrivo al campo successivo. Delle salviette igieniche biodegradabili potrebbero tornare utili insieme ad un piccolo pezzo di sapone, spazzolino e dentifricio.
Tra i medicinali personali consiglio di avere a disposizione del Paracetamolo, delle compresse di Acetazolamide e qualche compressa di Loperamide. Le guide sono provviste di molti farmaci adeguati ad ogni vostra necessità, tuttavia consiglio in ogni caso di consultare il proprio medico prima di organizzare la vostra scorta personale di medicinali.

Il viaggio...
Sedile n° 14B lungo il corridoio del piccolo ATR della PrecisionAir decollato da Nairobi in Kenya da poco più di un'ora. Ho le orecchie tappate dalla pressione e sono un po' stanco per le poche ore di sonno dei due giorni precedenti. C'è silenzio sull'aereo, leggero brusìo in coda dove le assistenti di volo stanno armeggiando con il carrello delle vivande.
Accanto a me e dall'altra parte del corridoio tre ragazzi sudafricani di origine olandese, con i quali ho fatto conoscenza al decollo, sfogliano in silenzio alcune riviste.
Sospiro e per l'ennesima volta da quando siamo partiti leggo meccanicamente le targhette affisse davanti ai miei occhi: Funga mkanda wa kiti chako wakati umekaa (Fasten your seat belt while seated) e Jaketi okozi liko chini ya kiti chako (Life vest located under your seat)
Dopo qualche istante avverto maggiore fermento tra i passeggeri. Molti si sporgono a sinistra e il mio compagno alza rapidamente la copertura del finestrino.
Eccolo. È immenso. Colossale. Le nuvole, pur numerose non riescono a ricoprirlo interamente, confondendosi con il bianco dei ghiacci, e nonostante la quota il Kilimanjaro mi appare quasi minaccioso, come un inviolabile tempio sacro.
Per un lungo momento rimango a fissarlo come sotto ipnosi. Incrocio lo sguardo con Julia, una ragazza canadese conosciuta il giorno precedente nell'albergo di Nairobi e in viaggio per un Safari. Seduta qualche fila di sedili più avanti, si è voltata a guardarmi e mi sorride.
Torno ad osservare la montagna dal finestrino. La stanchezza è svanita e l'adrenalina è di nuovo alle stelle. Un campanello elettrico avverte di allacciare le cinture e di rimanere seduti: atterraggio in corso.

Il briefing...
Dopo l'atterraggio ed il visto tanzaniano sul passaporto, mi attende circa un'ora di viaggio a bordo di un taxi. Giunto all'albergo ho il tempo di depositare i bagagli in stanza e pranzare, nel pomeriggio avverrà il briefing con le guide del trekking. Si raduna quindi il nostro gruppo, me compreso siamo sei: Fiona e Leonard dalla Germania, Joao dal Portogallo, Britt e Mona dalla Norvegia.
Facciamo la conoscenza di Shabani, una delle due guide che ci condurrà lungo il trekking e che passa ad illustrarci con un inglese semplice e chiaro alcune basilari informazioni circa orari di partenza, tempi di percorrenza, equipaggiamento ed eventuali difficoltà del precorso.
Ultimata la preparazione dello zaino, mi dedico alla cena. La tensione del trekking del giorno seguente si scioglie un po' con il cibo e con l'amabile compagnia di Joao e di una simpatica coppia californiana che effettuerà l'ascensione con un altro gruppo. Termino la giornata coricandomi nella mia stanza dopo essermi assicurato che tutte le zanzariere attorno al letto siano accuratamente chiuse.



ASCENSIONE

Giorno 1°:
Lascio parte dei miei bagagli non necessari per l'ascensione alla guardia masai dell'albergo, mi rilascia un piccolo biglietto numerato e deposita con cura la valigia in uno scomparto di un capanno sorvegliato. Ringrazio rispettosamente e salgo sul furgone ormai pronto alla partenza.
Nelle soste lungo le strade di Moshi uomini e ragazzi cercano di vendere dai finestrini ogni sorta di articoli: dal cappello alle t-shirts, dalla borraccia alle noccioline.
Lasciamo il centro abitato e sfrecciamo veloci sulla A23 in direzione di Arusha, svoltiamo a destra sulla strada che sale al Machame Gate costeggiando piantagioni, campi coltivati, abitazioni e aree di fitta vegetazione. Nuvole basse coprono la visuale ma l'altimetro segna 1800 m quando scendiamo dal furgone al Machame Gate.
Qualche minuto per scattare qualche foto, per la procedura di registrazione e per bilanciare le borracce nello zaino mentre i portatori organizzano tutto il necessario nelle sacche e nelle borse caricate sulle spalle oppure sulla testa.
Finalmente si parte, le guide conducono i gruppi con passo lento e regolare, diversamente dai portatori che al contrario non hanno limitazioni e marciano spediti nonostante il carico. Difficile in ogni caso procedere velocemente: il paesaggio tutto attorno pretende di essere ammirato per la sua straordinaria bellezza e obbliga a camminare con lo sguardo per aria. La lussureggiante vegetazione della foresta pluviale (circa 2000 mm di precipitazioni all'anno) accompagna l'escursionista lungo il cammino e si possono passare ore a osservare piante di Macaranga Kilimandscharica e di Olea Kilimandscharica, o di altri alberi ricoperti di Erica Excelsa, giocando con l'immaginazione sulle forme insolite e curiose delle piante: mani protese verso l'alto, fuochi pirotecnici congelati in una verde schiuma muschiosa, danzatrici sulle punte, coppie avvinghiate in un imperituro abbraccio appassionato...
Come se non bastasse, a sorprendere è il silenzio sbalorditivo che avvolge questo preistorico ambiente creando un'atmosfera ancora più suggestiva, guardandosi attorno verrebbe da immaginare un continuo clamore di creature esotiche ma non incontriamo animali lungo il cammino salvo un paio di piccoli ragni, una linea di formiche, qualche moscerino, e una coppia di grandi corvi imperiali dal collo bianco, comunemente chiamati Kunguru in Swahili (Corvus Albicollis).
Non ci sono molti animali sulla Machame Route, come ci spiega la guida, ci sono maggiori probabilità lungo la Rongai Route, dalla parte opposta della montagna rispetto alla nostra posizione, più vicina al confine con il Kenya e ai suoi parchi naturali, muovendosi in silenzio e possibilmente durante il periodo delle migrazioni dei grandi erbivori.
Si giunge quindi al Machame Camp a quota 2829 m dopo circa sette ore di cammino ed un pranzo veloce a quota 2400 m.
Shabani ci conduce fino al capanno del Kilimanjaro National Park dove firmiamo il registro, poi raggiungiamo i nostri portatori e le tende. Abbiamo il tempo per un breve momento di riposo prima della cena.
Terminato il pasto veniamo sottoposti ad un controllo al saturimetro di Chombo, capo guida del nostro gruppo. Uno ad uno verifichiamo il nostro livello di ossigeno consapevoli che se il valore scendesse al di sotto del 60% saremo costretti ad interrompere l'ascensione per la nostra sicurezza.
Livello Ossigeno: 92%

Giorno 2°:
Le nubi finalmente si diradano permettendoci di gustare una buona tazza fumante di the ammirando la cima del Kibo dal campo tendato.
Riprendiamo il cammino seguendo Chombo mentre i portatori ci superano ripetendoci come un mantra di procedere lentamente: "Pole pole".
Il sentiero è più stretto rispetto al largo percorso del giorno prima ma non meno evidente. Inoltre ci sono parecchie compagnie di escursionisti partite insieme a noi da Machame Camp e capita qualche volta di rimanere imbottigliati nel traffico dei numerosi gruppi e degli ancor più numerosi portatori.
Abbandoniamo l'aria umida e le nuvole a 3600 m, ora sotto di noi si estende un oceano bianco e vaporoso dal quale spunta fuori solo il  Meru (4566 m) distante da noi circa 62 Km.
Proseguiamo mentre la foresta cede rapidamente il posto ad una brughiera ventosa, superiamo un avvallamento su una pietraia leggermente sconnessa e pieghiamo a sinistra verso Shira Camp a quota 3837 m.
Il campo è molto vasto e c'è un gran via-vai di persone ma i portatori sorvegliano le tende costantemente ed è quindi possibile depositare il proprio equipaggiamento in tenda con assoluta tranquillità.
Si comincia a percepire l'aria più sottile e per meglio acclimatarsi, dopo pranzo, Shabani ci porta ancora 100 m più in alto alla Shira Cave: un'angusta caverna che in passato accoglieva esploratori e sherpa ma che ora non è più utilizzabile per ragioni di sicurezza. Raggiungiamo un picco poco più in alto da cui si gode di una splendida vista, scattiamo qualche foto e poi torniamo lentamente alla quota del campo dove troviamo una gustosa cena ad attenderci mentre le nuvole vengono trapassate dai raggi del sole al tramonto colorandosi di oro e rosso.
Un rapido check al saturimetro prima di andare a dormire. Livello Ossigeno: 85%
La notte è inquieta: soffia un vento forte che scuote la tenda ed è difficile prendere sonno, ancora più difficile convincersi ad uscire per andare in bagno. Con inevitabile riluttanza esco dal caldo sacco a pelo e mi copro con la giacca prima di strisciare fuori dalla tenda, ma quello che mi si presenta davanti è uno degli spettacoli più sorprendenti della mia vita e che mi resterà per sempre scolpito nella mente: la volta celeste più luminosa ed aliena che abbia mai visto. Il vento ha spazzato via le nubi e ora le stelle, a milioni, illuminano la notte. Non c'è la Stella Polare e riesco a stento a distinguere il Grande Carro, parzialmente coperto da una cresta della montagna.
Mi allontano di una ventina di passi dal campo tendato e spengo la torcia frontale: si distingue a malapena il profilo del Kibo, un'ombra di pietra e ghiaccio, nero e bianco...tutt'attorno rocce e forme scure...il vento gelido che sferza il viso...e in alto stelle per nulla familiari. Per un breve momento mi sembra di essere su un altro pianeta, ostile e sconosciuto; mi pervade una sensazione di smarrimento che disarma e atterrisce.
Guardo la cima, gli occhi si stanno abituando alla semioscurità, ora sembra più vicina ma nel contempo il buio le conferisce un'aura minacciosa e temibile. Un impulso reverenziale mi impone di abbassare lo sguardo e il vento gelido mi obbliga a sbrigarmi per tornare rapidamente in tenda.
Cerco di addormentarmi immaginando di essere in viaggio su un treno che sfreccia a folle velocità con tutti i finestrini aperti. Grazie al suono del vento intenso, funziona.

Giorno 3°:
Il vento è meno insistente al mattino e permette una preparazione rapida.
Si lascia il campo e la linea di vegetazione più evidente diretti verso la scura formazione rocciosa denominata Lava Tower a 4637 m. Il sole forte e l'aria sottile costringono a numerose pause. Di frequente Chombo e Shabani invitano tutti a bere acqua. Fin dalla terza sosta a 4200 m il paesaggio mostra evidenti segni di cambiamento: la roccia lavica predomina sul terreno dove solo pochissimi ciuffi d'erba sopravvivono piegati dal vento. La sella da raggiungere tra Lava Tower e un'alta parete del Kibo è perfettamente visibile, il tratto di sentiero che si snoda davanti ai nostri occhi è molto frequentato anche dagli escursionisti partiti dalla Shira Route e dalla Lemosho Route, a ovest del Kilimanjaro.
Esiste un sentiero che aggira Lava Tower, mantenendosi ad una quota più bassa, e che raggiunge rapidamente Barranco Camp, utilizzato da alcuni dei portatori per velocizzare gli spostamenti di materiale ed equipaggiamento.
Pranziamo al Lava Tower Camp, si percepisce chiaramente la quota come un senso di stanchezza e di dolore alla testa, il respiro è più difficile e l'aria inspirata è molto secca e rarefatta ma, terminato il pasto, si riprende immediatamente il cammino, questa volta in ripida discesa, lungo la Umbwe Route, fino a raggiungere nuovamente la quota dei seneci e il Barranco Camp (3976 m).
Come già accennato in precedenza questo graduale stazionamento a quote più alte con consecutivo ritorno a livelli inferiori favorisce l'adattamento dell'organismo alle differenti condizioni di pressione e ossigeno presenti in alta montagna. Il divario di quota tra Shira Camp e Barranco Camp è quasi insignificante, ma il dislivello complessivo percorso permette al corpo di rispondere con efficacia alle mutazioni climatiche e barometriche dell'ambiente aumentando, per esempio, la percentuale di globuli rossi nel sangue, necessari alla distribuzione dell'ossigeno nel sistema circolatorio.
Raggiunto Barranco Camp la visuale del panorama viene nuovamente coperta dalle nuvole, in compenso però riceviamo in dono una magnifica veduta del Kibo, illuminato dal sole al tramonto, che emerge dalle nubi come il lapideo dorso di un gigantesco cetaceo. Uno spettacolo che ci blocca fuori dalla tenda, nonostante il freddo intenso, a fissarlo con occhi pieni di meraviglia.
Livello Ossigeno: 80%

Giorno 4°:
Il gelo umido durante la notte ha messo a dura prova il mio sacco a pelo ma il the caldo della colazione fornisce un po' di sollievo dal freddo e permette di osservare con più calma il primo tratto della camminata che ci attende oggi: una parete rocciosa alta quasi 260 metri denominata Great Barranco Wall.

Vista dal campo base appare ben più complessa, verticale ed impegnativa di quanto non sia in realtà. Per affrontarla superiamo con cautela un corso d'acqua, ghiacciato in alcuni punti, e seguiamo un itinerario che si inerpica tra le rocce con passaggi che richiedono molta attenzione e talvolta anche l'appoggio delle mani, ma che a mio avviso non raggiungono neppure il primo grado di arrampicata. Consiglio in ogni caso di riporre nello zaino i bastoni da trekking, almeno per questo primo tratto di percorso della durata di circa un paio d'ore. Superato il Great Barranco Wall facciamo una breve pausa a quota circa 4200 m e tornano il vento ad accompagnarci lungo il cammino e le nuvole a coprire la visuale del ghiacciaio Heim sopra le nostre teste.
Ci attende un percorso breve, in lieve discesa, tra rilievi e avvallamenti fino al Karanga Camp a quota 4033 m. Il campo è molto esteso e la sua posizione permette una vista magnifica della cima del Kibo e della pianura sotto di noi. Nell'attesa che la giornata volga al termine, mi concedo una passeggiata nel campo in compagnia di Britt e Mona, mentre le nubi si diradano. Prima di cena Chombo invita tutti noi ad ascoltare la nota "Kilimanjaro song" cantata da tutto lo staff: guide, cuoco, assistenti e portatori insieme. È una canzone che per tradizione tutte le compagnie cantano durante ogni spedizione. Non mi soffermerò a parlare del testo, di cui peraltro esistono numerose versioni e varianti, quello che maggiormente mi colpisce è l'atmosfera gioiosa che evoca, il clima di festa e di famiglia che crea e che lascia a tutti noi un sorriso ed una piacevole sensazione nel cuore. La testa invece risente sempre di qualche fastidiosa fitta di dolore dovuta alla quota.
Effettuo due controlli al saturimetro, prima e dopo cena.
Livello Ossigeno: 78% / 80%


Giorno 5°:
La notte non mi concede un buon riposo: percepisco l'aria gelida all'esterno del sacco a pelo e sogno spesso di correre o di affannarmi alla ricerca di qualcosa. Forse la mia mente evoca questi scenari cercando di fornire una spiegazione logica alla fatica che incontro nel respirare regolarmente.
Al mattino mi alzo affaticato; almeno le nuvole si sono abbassate di quota ed ora sopra di noi c'è solo un'immensa tavola carica di azzurro. Si riprende il cammino, proseguiamo con calma dietro il rassicurante e cadenzato passo di Chombo e Shabani. Il primo tratto di sentiero ha pendenza lieve e permette di osservare con attenzione l'ambiente circostante, non ci sono più piante, nè erba, nè insetti, nè kunguru; nessuna creatura vivente, visibile ad occhio nudo, tra le rocce che ora dominano incontrastate lo scenario. Fa riflettere pensare che siamo, noi esseri umani, le uniche forme di vita pensanti che si dirigono intenzionalmente dove le altre forme di vita cedono e soccombono, e si ha appena il tempo di porre ironicamente in discussione la presunta superiorità evolutiva dell'essere umano e del suo intelletto prima di imbattersi nella Mweka Route e in un tratto di sentiero più impegnativo che raggiunge, con qualche tornante, Barafu Camp a quota 4673 m.
Il campo si sviluppa su una cresta rocciosa accanto alla South East Valley, generata a sua volta da un'antichissima colata lavica del Kibo. Difficile trovare un'area in piano in quello spazio esiguo e tutte le tende risentono di qualche fastidiosa pendenza, in compenso la vista è magnifica perchè da Barafu Camp si possono osservare insieme la cima del Kibo, nostra prossima meta, e la cresta ricca di guglie del Mawenzi a circa 8 km di distanza verso est.
Chombo ci attende ad un briefing, prima di cena, per le ultime istruzioni prima della partenza notturna alla vetta: saliremo con un passo molto lento ed alcuni portatori ci seguiranno per assisterci in caso di necessità. In caso di estrema difficoltà a respirare  ci verrà fornito l'ossigeno, non come ausilio all'ascensione ma solo per scendere a quote inferiori e più sicure. Le guide ci suggeriscono inoltre di custodire fotocamere e cellulari, che porteremo con noi per le foto, nelle tasche più interne e a contatto con il corpo perchè il freddo intenso tende a danneggiare e compromettere le batterie.
Facciamo un controllo al saturimetro, il mio livello di ossigeno è sceso a 66%, forse anche a causa della stanchezza. Seguo il consiglio di Chombo e a cena cerco di bere più acqua del solito. Prendo anche una compressa per combattere il mal di testa e mi corico per riposare più ore possibile, consapevole che la sveglia suonerà alle 00:00 in punto.

Giorno 6°:
Barafu in lingua Swahili significa ghiaccio e ne comprendo a fondo il motivo al suono della sveglia. All'interno della tenda la temperatura del termometro sfiora 0° C e fuori è anche più bassa.
Preparo l'equipaggiamento necessario e mi copro al meglio.
Prima della partenza, per sicurezza, Chombo vuole ricontrollare il mio livello di ossigeno: 75%. Tiro un sospiro di sollievo; nonostante la stanchezza, il mal di testa (ed ora si è aggiunta anche la tosse) sono davvero felice di poter proseguire.
Lasciamo Barafu Camp e prendiamo a salire su un ripido sentiero di rocce e terra indurita dal ghiaccio. Ci attendono circa otto ore di cammino fino in vetta e le pause sono poche. Il vento concede una tregua temporanea ma la temperatura è inferiore ai -15° C e l'acqua nelle borracce si è convertita inevitabilmente in compatti blocchi di ghiaccio. Mi volto indietro ad osservare nel buio la lunga fila di lampade frontali che ondeggia e procede tra le ombre.
Tutte le squadre sono messe alla prova, in almeno due occasioni incontro qualche escursionista dall'aria esausta, in compagnia di un portatore, che scende percorrendo il sentiero in senso inverso, con una mascherina per l'ossigeno sulla faccia.
All'orizzonte, verso est, il cielo comincia gradualmente a schiarirsi, il buio comincia lentamente a lasciare il posto alla luce. Il nostro gruppo si è allungato un po', cerco di continuare a respirare regolarmente senza perdere il passo di Chombo. Accanto a me Bart, il mio primo portatore, mi sorride e mi incita a continuare; invidio in silenzio il suo livello di emoglobina e procedo.
Raggiungiamo Stella Point a 5749 m con un'aurora così luminosa da permetterci di spegnere le torce frontali. Da questa quota ora si può distingure chiaramente la "Sella dei Venti" ossia l'area di tundra più alta di tutta l'Africa, che unisce Kibo e Mawenzi.
Alcuni gruppi si attardano a Stella Point in attesa dell'alba, Chombo ci invita a proseguire per raggiungere Uhuru Peak, la sommità del Kibo, verso ovest; cammino quindi voltandomi indietro ogni cinque o sei passi. Nel frattempo a sinistra posso contemplare i colossali ghiacciai Rebmann e Decken. Studi ed osservazioni dei climatologi sostengono che questi giganti siano in fase di ritiro e mentre continuo a camminare tento, con un vano sforzo di immaginazione, a figurarmeli ancora più grandi di quanto appaiano.
Supero Punta Meyer, sono quasi nei pressi della cima e sento che ci siamo: mi fermo e mi volto verso est. Leonard mi ha raggiunto, mi guarda e si gira anche lui.
Qualche istante dopo, eccola: l'alba africana dal Kilimanjaro; attesa da anni ed ora, finalmente, davanti ai miei occhi. L'alba più bella e spettacolare che abbia mai visto.
Inizia come un minuscolo punto, una scintilla, su un oceano di nuvole bianche che raggiungono un orizzonte così vasto da far percepire chiaramente la curvatura terrestre. Da quel punto, in poco tempo, si solleva veloce un globo di luce che passa rapidamente dal rosso al bianco accecante. Corona venuta dal cosmo a proclamare la sovranità della montagna sul mondo.
È una meraviglia assoluta ed indescrivibile.
Non esiste foto, non esiste filmato, nè quadro, nè racconto che possa esprimere esattamente questo momento. Non posso parlare, nè riprendere il cammino. Posso solo commuovermi.
Terminata l'alba attendo che il cuore riprenda a battere ad un ritmo accettabile almeno per la quota, mentre la temperatura comincia a farsi più gradevole, poi riparto a seguire la mia ombra.
Continuo a camminare sull'ampia cresta della bocca più esterna del vulcano, alla mia destra si estende il vasto cono interno con i suoi enormi ghiacciai, come il ghiacciaio Fortwangler, e con il cratere Reusch che costituisce la bocca principale del Kibo.
Con le ultime riserve di adrenalina raggiungo Uhuru Peak (uhuru in Swahili significa libertà) a quota 5895 m e mi pervade una gioia infinita. Alzo le braccia e per un momento mi sento la congiunzione tra la terra e il cielo. Per l'emozione, ma anche per la stanchezza, mi tremano le gambe e mi butto in ginocchio sulle rocce. Bart si avvicina e mi dà delle pacche sulla spalla: "Young man! Good job!" ripete ridendo. Ringrazio di avere gli occhiali da sole che nascondono lacrime di commozione, depongo lo zaino a terra per abbracciare Bart, Chombo e tutta la compagnia.
Respirare è sempre faticoso ma cerco comunque di saturare al massimo i miei polmoni di quell'aria sottile e fredda che sento già, in cuor mio, mi mancherà in futuro.
Rido pensando alla data. È martedì 8 Agosto. La stessa data della storica conquista del Bianco.
Compio un lento giro su me stesso, curioso ed insolito anemoscopio umano posto sul tetto dell'Africa. Per chilometri e chilometri attorno a me, in ogni direzione, c'è solo vento. Nient'altro.
Allora ad occhi chiusi svuoto la mente e lascio che tutti i pensieri volino via con esso: nessuna preoccupazione...hakuna matata come direbbe Chombo. Sono dove voglio essere. Il resto conta poco.
Passa rapidamente il momento delle foto e le guide ci invitano a riprendere immediatamente la discesa per la nostra sicurezza. A Stella Point mentre attendiamo che il gruppo si ricompatti i portatori ci offrono un po' di the caldo prelevato da un thermos. Per la scarica di adrenalina ho dei conati e mi gira la testa, Chombo mi rassicura che scendendo mi sentirò meglio.
Raggiungiamo Barafu Camp scendendo su una distesa di fine e leggera cenere lavica, nei punti più ripidi mi sembra quasi di sciare. Arrivato alla tenda crollo addormentato, esausto. Cerco di riprendermi il più possibile, consapevole che il cammino non è ancora concluso, nel pomeriggio ci attende una rapida discesa lungo la Mweka Route fino al Mweka Camp a quota 3068 m, passando prima per Millenium Camp a quota 3810 m.
Al mio risveglio attingo alle ultime riserve di energia della giornata e ripongo tutta la mia fiducia nelle ginocchia e nei bastoni da trekking. Il sentiero scende rapidamente di quota e in circa cinque ore di cammino raggiungiamo nuovamente la quota dei seneci e della fitta vegetazione della foresta. Come aveva predetto la guida, man mano che scendo di quota la morsa alla testa si allevia e riprendo a sentirmi meglio. Dopo cena il mio livello di ossigeno è tornato a 80%.
Mi sembra passata un'eternità dall'ultima volta che ho dormito piacevolmente e sento che stasera non avrò problemi. In effetti, appena nel sacco a pelo, cado in un sonno profondo e riposante.

Giorno 7°:
Nell'ultimo giorno di cammino si continua a scendere fino al Mweka Gate. Il sentiero è reso scivoloso da una pioggia leggera che ci accompagna per qualche ora e che si interrompe proprio nei pressi della conclusione del percorso.
Si firma l'ultimo registro del viaggio e si può lasciare anche un commento scritto sul quaderno dei saluti, riposto sotto una larga tettoia di legno accanto al parcheggio dei furgoni. Alcuni venditori passano tra i gruppi di escursionisti per vendere birra fresca, Coca-Cola, t-shirts ed altri articoli.
Il viaggio si conclude a Moshi con la consegna del certificato del raggiungimento della vetta e con i ringraziamenti alle guide e ai portatori. Inutile dire che, insieme ai ringraziamenti, sono molto apprezzate cospicue mance e magari anche parte del nostro equipaggiamento che riteniamo di poter donare (uno dei portatori a Barafu Camp mi ha fatto capire in modo gentile ma molto chiaro che i suoi scarponi erano vecchi e che avrebbe tanto voluto procurasene un paio nuovo).
Il giorno successivo scorre rapidamente tra i saluti con i compagni di viaggio, i bagagli e i voli in ritardo. Dal finestrino del taxi diretto all'aeroporto rivolgo un ultimo saluto al Kilimanjaro. L'autista mi chiede se desidero accostare per scattare una fotografia, ringrazio ma rifiuto: posso dichiarare con estrema soddisfazione che mi va bene così.


Ringraziamenti...
Il primo pensiero va a Chombo e Shabani, guide straordinarie che hanno permesso a questo mio sogno di divenire realtà.
A seguire ringrazio Bart e tutti i portatori, la loro tenacia ha dell'incredibile. Da oggi in poi, quando mi sentirò inarrestabile, forte e in forma smagliante dirò: "Mi sento come un portatore del Kilimanjaro."
Ringrazio Britt, Fiona, Joao, Leonard e Mona per le fotografie e la magnifica compagnia durante ogni passo di questo viaggio.
Un ringraziamento speciale anche a Giorgia e alla mia famiglia per il supporto fornito prima della partenza e al ritorno in Italia.
Un grande ringraziamento va ancora ai fornitori del materiale e dell'equipaggiamento che mi è stato utile, o indispensabile, ogni giorno di cammino:
-TERA SPORT di Luciano Marchisio e Luca Giuseppe Daniele (Via Issiglio, 2, 10141 Torino)
-SALA SPORT di Fabrizio Ceolin e Minoli Adriana (Via Onorato Vigliani, 164, 10127 Torino)
-FERRINO STORE e Sandro Reina (Corso Giacomo Matteotti, 2L, 10121 Torino)


Il Kilimanjaro ha superato di gran lunga ogni mia aspettativa. Resterà a lungo una delle più straordinarie avventure mai vissute in montagna. Emozione ad ogni passo.

























































































































































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